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martedì 15 settembre 2015

Bavaglio, ci risiamo: stop a stampa e giudici

Oggi alla Camera comincia l’iter della nuova disciplina
sulle intercettazioni. Dall’udienza filtro al carcere:
così si mettono a tacere le notizie scomode


L’allievo potrebbe superare il maestro. Silvio Berlusconi non riuscì a imporre il bavaglio alla stampa, fermato da girotondi e dubbi del Quirinale. Matteo Renzi invece è (quasi) a metà dell’opera. Oggi pomeriggio nell’aula della Camera arriva il disegno di legge sulla riforma penale, che contiene la delega al governo per riscrivere le norme sulla pubblicazione delle intercettazioni. Delega quasi in bianco, con una decina di righe generiche nel contenuto ma chiare nell’intento: vietare la diffusione delle intercettazioni “non penalmente rilevanti”. Spesso, scomode per partiti e accoliti vari. E dentro c’è anche l’emendamento Pagano, che prevede il carcere per chi effettui registrazioni di nascosto. La maggioranza, con in testa il Pd, vuole approvare tutto in prima lettura entro giovedì. Perché il tema è caro agli alleati inquieti del Nuovo Centrodestra. Dichiaratamente contro, solo i Cinque Stelle. Promettono “battaglia in aula”, dove hanno presentato 300 emendamenti. “Ma avremo solo un’ora e 11 minuti per presentarli, i tempi sono contingentati”, lamenta Giulia Sarti. Ieri ha tenuto una conferenza stampa assieme a Vittorio Ferraresi, a cui il M5s aveva invitato tutti i giornalisti. Si sono presentati in quattro: il presidente dell’Ordine Enzo Iacopino, Marco Lillo del Fatto, Antonino Monteleone di Piazza Pulita e Liana Milella di Repubblica.
Mani libere per l’esecutivo
La mordacchia che verrà si annida nell’articolo 29 del ddl. Poche righe che delegano al governo di stabilire “prescrizioni che incidano sulle modalità di utilizzazione cautelare” delle intercettazioni, e che “diano precisa scansione all’udienza di selezione del materiale intercettato”, per tutelare “la riservatezza di persone occasionalmente coinvolte”. Tradotto, si punta a un’udienza filtro. Sul Fatto di due giorni fa, Walter Verini (Pd) spiegava: “L’orientamento è quello di un’udienza dove l’avvocato della difesa, il pm e il giudice (dell’udienza preliminare, ndr) valutino quali siano le intercettazioni di rilevanza processuale. Se non lo sono, vengono messe in una ‘cassaforte ’ sotto la responsabilità del magistrato”. Ma le modalità restano nebulose, come le sanzioni per i giornalisti che violassero il blocco. Mentre sono già evidenti i rischi. Con una norma del genere, non sarebbero comparse sui giornali le intercettazioni che riferivano del dono di un Rolex da 10 mila euro al figlio dell’ex ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, da parte di un imprenditore arrestato nell’inchiesta della procura di Firenze sulle Grandi Opere. E non si sarebbero lette le conversazioni tra Matteo Renzi e il generale della Finanza Michele Adinolfi, in cui il segretario dem bollava Enrico Letta come “un incapace”. “La norma - aggiunge Ferraresi - potrebbe favorire ricatti da parte dei pochi che apprenderanno il contenuto delle intercettazioni”.
Quell’emendamento ancora pericoloso
Il Pd l’ha subito cambiato. Ma l’emendamento Pagano, che prende il nome dal deputato di Ncd, resta una mina. Il testo originario prevedeva: “Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni”. I programmi tv d’inchiesta, che con le registrazioni nascoste hanno svelato scandali in serie, erano insorti. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva espresso “forti riserve”. Così i dem hanno reso non punibili “le registrazioni ai fini di diritto di cronaca e uso processuale”. Ma l’emendamento rimane un forte deterrente per i cittadini che vogliono denunciare crimini, magari registrando il ricatto di un mafioso. Perché non è affatto automatico che una registrazione dia luogo a un processo.
Non solo censura: le altre ombre
Il ddl impone ai pubblici ministeri il termine tassativo di tre mesi dalla scadenza formale dei tempi d’indagine, entro cui chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione di un ’inchiesta. E i magistrati già protestano: in indagini di dimensioni medio-grandi, come quelle sulla mafia, dover chiudere entro 90 giorni può essere un macigno.

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