Norme che aggirano o contraddicono il voto, funzionari nei
posti chiave che provengono dal settore privato: se lo fai notare, però, Renzi
& C. s’arrabbiano
Ieri Matteo Renzi ha ritwittato un articolo per l’Unità di
uno dei suoi consulenti economici, Luigi Marattin. Titolo: “La bufala del
referendum tradito”. La cosa, al netto di certe spiacevoli semplificazioni
delle posizioni che intende criticare, ha un suo elemento ironico: Marattin era
contrario ai referendum nel 2011, quand’era assessore a Ferrara, e scriveva
cose tipo “Il grande bluff dei referendum sull’acqua”, oggi ce ne spiega la
corretta interpretazione cambiando un po’ le parole. Su Repubblica, invece,
Stefano Rodotà - giurista che quei quesiti contribuì a scrivere - dedicava un
pezzo proprio al “referendum tradito”, cioè alla bufala di Marattin e Renzi:
oggi, scrive, “si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando
norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi
idrici”.
In realtà, l’opera di demolizione di quei referendum è
iniziata un minuto dopo la scoperta che li avevano appoggiati 26 milioni di
italiani. Breve riepilogo: con il sì a due quesiti furono abrogati 1) il
decreto che imponeva la messa a gara dei servizi pubblici locali (acqua
compresa) e metteva molti paletti alla gestione pubblica; 2) la voce della
bolletta dell’acqua che prevedeva “adeguata remunerazione del capitale
investito dai gestori”. Il combinato disposto di quei due “sì” e l’impostazione
stessa dell’iniziativa referendaria erano chiare: il servizio idrico va
sottratto al mercato. La politica doveva solo prendere atto, eppure quella
volta come altre non lo ha fatto: al referendum contro il finanziamento
pubblico dei partiti, ad esempio, si reagì inventando il rimborso pubblico ai
partiti. Ecco, allora, come è stato smontato il referendum sull’acqua. Erano
passati due mesi dal voto quando il governo Berlusconi approvò un decreto
(agosto 2011) che riproponeva la stessa legge abrogata: la Corte costituzionale
lo ha cancellato l’anno successivo. A dicembre il governo Monti, nel cosiddetto
“Salva Italia”, fece una cosa meno rumorosa ma più efficace: sciolse la Commissione
di vigilanza sui servizi idrici (Coviri) di Palazzo Chigi e passò le competenze
all’Autorità per l’energia. Spiega Roberto Passino, ultimo presidente del
Coviri: “Il passaggio fu rapidissimo e assecondò tutte le richieste dei
gestori. L’Autorità non aveva le competenze e infatti pescò tra le risorse di
Federutility (le imprese del settore, ndr). Una roba da Paese delle banane”.
L’Authority ribatte che “le competenze vanno cercate dove si trovano”. È il
caso di Lorenzo Bardelli, capo della Direzione servizi idrici: ci arriva
nell’ottobre 2012, fino a un mese prima era capo dell’area giuridica e
legislativa di Federutility. Questo andazzo, peraltro, è generale: la
responsabile “acqua” del ministero dell’Ambiente, Gaia Checcucci, nominata a
novembre, arriva direttamente dal privato e risulta ancora nel cda di Intesa
Aretina Scarl, società di Suez e Acea (la nomina sembra proprio violare un dlgs
del 2013). Cos’è successo dal 2011? Ce lo spiega ancora Passino, peraltro non
un pasdaran della gestione pubblica dell’acqua: “Noi stavamo mettendo in piedi
un database con cui fotografavamo i gestori, che erano ostili: l’Autorità non
l’ha mai preso in considerazione. Eppure senza comparazione come si incentiva
l’efficienza? I nuovi sistemi tariffari lo fanno molto poco e invece concedono
norme finanziarie favorevoli ai gestori, come la remunerazione di tutti gli
investimenti pubblici pregressi. Una cosa scandalosa. Così il pubblico paga due
volte: con le tariffe e pagando investimenti fatti con fondi statali. È incomprensibile”.
Risultato: si dice che abbiamo le tariffe idriche più basse d’Europa, ma in
questi anni stiamo rapidamente colmando lo svantaggio per raggiungere quelle di
gas ed energia, che sono le più alte.
Infine ci sono le scelte legislative che aggirano quanto
deciso dai cittadini. Per restare a quelle del governo Renzi se ne contano
almeno quattro. Lo “Sblocca Italia” del 2014, ad esempio, indica l’obiettivo
dell’esecutivo nella concentrazione dei servizi pubblici locali nelle mani di poche
grandi multi-utility e stimola le concentrazioni prevedendo che “gestore unico”
(obbligatorio per ogni ambito territoriale) divenga chi ha già in mano il
servizio “per almeno il 25% della popolazione” (ridono A2A, Iren, Hera, Acea,
etc). La legge di Stabilità, poi, incentiva i Comuni a privatizzare i servizi
pubblici a rete (acqua inclusa) attraverso sconti sul Patto di Stabilità
interno. Un decreto attuativo della riforma Madia della P.A. prevede persino
che le tariffe tengano conto della “adeguatezza della remunerazione del
capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. Proprio
ciò che fu abrogato da 26 milioni di voti. Infine, c’è il voto della Camera che
martedì - con parere favorevole del governo - ha svuotato la legge scritta
dall’intergruppo parlamentare sull’acqua pubblica: ne facevano parte anche
molti parlamentari Pd. Così si smonta un referendum: con pazienza, pelo sullo
stomaco e Twitter.
Marco Palombi - Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 – pag. 7
Nessun commento:
Posta un commento