“Il depistaggio c’è stato, ma non abbiamo prove”
A
gente del Sisde per due anni con il nome in codice “Rutilius ”, Arnaldo La
Barbera è stato il “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio”,
ma l’“equivoca doppiezza” di Salvatore Candura e le dichiarazioni
contraddittorie degli altri falsi pentiti, non consentono di portare in aula le
accuse di “indottrinamento e di percosse” mosse da Vincenzo Scarantino nei
confronti dei tre funzionari di polizia, Salvatore La Barbera, Mario Bo e
Vincenzo Ricciardi e definite dai magistrati “impalpabili e inconsistenti”.
Almeno fino al 14 febbraio 2014, data in cui il picciotto della Guadagna
protagonista del più clamoroso depistaggio della storia giudiziaria ha ripreso
ad accusare funzionari di polizia i cui nomi sono per ora segreti. Non saranno
Bo, La Barbera e Ricciardi, autori di un “forte pressing investigativo” su cui
i magistrati non si pronunciano, a salire sul banco degli imputati
dell’inchiesta sui misteri del depistaggio di via D’Amelio, che resta aperta,
con un colpo di scena imprevisto: “Ben più complessa – scrive la procura di
Caltanissetta nelle 188 pagine della richiesta di archiviazione firmata dal
procuratore Lari e dai pm Paci e Luciani - degli angusti confini” in cui la
restringono le dichiarazioni di Scarantino, Candura e Andriotta (anche lui un
pentito). Per i magistrati è certo che gli investigatori della Questura di
Palermo, “si preparassero, ben prima del comparire sulla scena” dei tre falsi
pentiti “ad una rapida definizione della vicenda il cui prodest
costituisce oggetto degli sforzi investigativi che quest’ufficio sta
attualmente profondendo”. La prova? La nota inviata il 13 agosto del ’92 dal
centro Sisde di Palermo a quello di Roma a seguito di “contatti informali con
investigatori della questura di Palermo” in cui vengono indicati i nomi degli
autori del furto della 126 ed il luogo in cui sarebbe stata custodita prima di
essere utilizzata nell’attentato, un dato che i magistrati definiscono “inquietante”:
“Non è dato agevolmente comprendere – scrivono i pm –come a quella data, sia
pur successiva alle intercettazioni dell’utenza della Valenti, gli
investigatori avessero acquisito notizie sul luogo dove la vettura rubata era
stata custodita”. Un dato che non è stato chiarito da nessuno dei funzionari
del servizio interrogati dai pm, e che “dà la stura ad una serie di allarmanti
ipotesi”: non lo hanno chiarito nè Lorenzo Narracci, all’epoca funzionario a
Palermo, né Luigi De Sena, alto dirigente del Sisde, né Andrea Ruggeri, capo
centro di Palermo; quest’ultimo ha riconosciuto come sua la firma in calce alla
nota (“potrebbe essere”) ma ha detto che all’epoca “non vantava all’interno
delle strutture investigative territoriali una forza di penetrazione di
siffatta portata”. Con la richiesta di archiviare le posizioni dei tre
funzionari restano senza volto quegli investigatori dalla condotta “grave e
inqualificabile” che hanno “contribuito ad allontanare la verità processuale
contribuendo a costruire un castello di menzogne”. I magistrati parlano di
“fonti scivolose” e impiegano gran parte delle 188 pagine per spiegare perchè
Andriotta, Scarantino e Candura, autori di dichiarazioni spesso
contraddittorie, confuse, illogiche non sono credibili, o, quando lo sono,
confermando la “vestizione del pupo”, non si possono riferire individualmente
all’uno o all’altro dei funzionari. E comunque si tratta di accuse prescritte.
A mantenere oggi aperto, dopo 23 anni dalla strage, il fronte investigativo
sull’azione di indottrinamento del falso pentito attraverso l’aggiustamento e
la correzione di rotta “in progress” delle sue dichiarazioni, sono proprio le
nuove, e recenti, rivelazioni di Scarantino “senza avere potuto contare,
scrivono i pm, sul contributo di chi, con ragionevole certezza appare
perfettamente a conoscenza dello svolgimento dei fatti”.
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