Il 50 per cento del mercato delle sementi è
controllato da
un pugno di aziende tra cui
Syngenta, Monsanto, Limagrain.
Rischia di
scomparire lo scambio tra i piccoli agricoltori locali
A Isola Liri, in provincia di Frosinone, vive Antonio
Taglione, ex agricoltore di 80 anni. Qualche settimana fa ha scritto una
lettera al Fatto, a mano, le parole tracciate con cura. “Ci voglio mettere la
faccia”. “Ho una pensione minima e riesco a stento ad arrivare a fine mese.
Prima abitavo a Roma, ma da quando mi sono trasferito qui con mia moglie, ho trovato
serenità coltivando un piccolo pezzo di terreno”, racconta dopo essere
rientrato dal lavoro nell'orto. “Conosco la terra ma ho problemi a trovare semi
autoctoni da piantare, quelli locali. Si vendono solo quelli delle
multinazionali: ma perché devo comprarli?”.
Spiega che gli piacerebbe coltivare quelli tramandati da
padre in figlio, selezionati in modo naturale dai suoi vicini di orto. “Quelli
commerciali non portano fioritura, non danno buona resa. Richiedono l’uso di
agenti chimici e pesticidi e non sono in grado di resistere ai cambiamenti
climatici". E costano tanto.
Maria Grazia Mammuccini è la vice presidente della divisione
italiana ed europea di Navdanya International, un ’associazione che sostiene il
diritto del seme e della biodiversità in agricoltura. “Per secoli - spiega -
sono stati i contadini a selezionare i semi: li conservavano e li isolavano
scegliendoli dalla parte migliore del raccolto. Identificavano le piante e i
frutti migliori e ne ricavavano i semi”. Una pratica, questa, che comprendeva
anche lo scambio tra gli agricoltori.
“Era un modo naturale per fare in modo che le migliori
varietà si fondessero, attenuando i difetti l'una dell'altra e potenziando la
resa - spiega la Mammucini. Fino al dopoguerra, quando è subentrata l'agricoltura
industriale. “Prima è stata introdotta la selezione dei semi da parte di enti
scientifici. Poi, le grandi imprese sementiere hanno preteso che i semi fossero
tutelati anche da diritti di proprietà intellettuale. Sono nate leggi,
normative comunitarie: una varietà, per essere venduta, deve essere iscritta al
Registro Nazionale delle Varietà, deve superare test e prove che durano
anni".
Il seme, infatti, deve dimostrare di corrispondere al
cosiddetto Dus, deve essere distinto, uniforme e stabile. In parole semplici
significa che le varietà devono avere caratteristiche chiare, che le
distinguano l'una dall'altra, mentre i semi devono essere tutti uguali, dare la
stessa resa e rimanere stabili nel tempo. “La selezione scientifica - dice la
Mammuccini - è una pratica che ha comunque portato ottimi risultati: non si può
negare. Il problema è venuto dopo”.
La certificazione ufficiale delle sementi è stata introdotta
dalla Comunità economica europea negli anni Sessanta e, secondo chi sostiene il
diritto alla biodiversità, di fatto impedisce ai piccoli contadini di gestire i
loro raccolti liberamente, di scambiarsi e di vendere i loro semi.
“La certificazione è un sistema che si propone di tutelare
l’utilizzatore, soprattutto se pensiamo alle migliaia e migliaia di piccoli
agricoltori che le impiegano”, spiega al Fatto Marco Nardi, segretario generale
di Assosementi.
Ma se la disciplina sementiera comunitaria e nazionale vieta
la commercializzazione di sementi che non appartengano a varietà regolarmente
registrate e che non siano certificate, i contadini, nonostante le regole,
comprano e si scambiano i semi. Anche per risparmiare. “Esistono aree di
illegalità diverse da specie a specie. Per il frumento duro, che è la specie
più coltivata in Italia, la quota non certificata è vicina al 35 per cento del
totale”. Per il grano tenero, il riso e la soia, la quota di seme non
certificato utilizzato si aggira intorno al 20 per cento.
Il dibattito sulla libera riproduzione delle sementi va
avanti da anni. Secondo uno studio dei Verdi europei, più del 50 per cento del
mercato dei semi è controllato da sole cinque multinazionali: Pioneer,
Syngenta, Monsanto, Limagrain e Kws. Se si aggiungono le altre aziende, si
arriva anche al 70 per cento. Un monopolio che ha generato un veloce aumento
dei prezzi: dal 1995 al 2011 il costo medio per seminare un ettaro di soia è
aumentato del 325 per cento, mentre quello del mais del 259.
Inoltre, le piccole e medie aziende sementiere che vogliono
essere autonome devono fare i conti con le multinazionali. Attualmente in
Italia sono circa 300. Non tutte però producono semi propri, da vendere
autonomamente. La maggior parte viene inglobata nella catena produttiva delle
multinazionali e produce i semi per loro. “Sono circa 16mila gli agricoltori
che ogni anno moltiplicano le sementi tramite contratti con le aziende
sementiere - spiega ancora Marco Nardi. “E la moltiplicazione delle sementi ha
riguardato nel 2014 circa 216mila ettari di campo”. Una catena di montaggio ad
appalti. “Così il monopolio dei semi resta alle multinazionali che influenzano
il mercato”, dice Mammuccini.
Antonio porta a passeggio il cane intorno al castello ducale
di Isola del Liri. Ha capito tutto quello che succede, i problemi che ci sono. Condivide,
approva alcuni passaggi, altri meno. Ma gli resta una domanda. “Perché dovrei
comprare semi da chi non conosco, se invece posso farlo da Giovanni, il mio
vicino. A chi facciamo del male? L’ho visto con i miei occhi: le sue piante
sono migliori delle mie”.
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