Prima di domandarsi perché Vincenzo De Luca non si è ancora dimesso da
governatore della Campania, bisognerebbe chiedersi come ha potuto diventarlo.
Perché le risposte alle due domande sono strettamente collegate: De Luca non
può fare il presidente della Regione, ma nemmeno il bidello in una scuola,
perché la sua condanna in primo grado per abuso d’ufficio lo rende
incompatibile con qualsiasi incarico pubblico. Ciononostante il Pd gli permise
di candidarsi alle primarie per correre a una carica che non avrebbe potuto
ricoprire, lanciando il devastante messaggio che le leggi non contano e tutto
si aggiusta. Sarebbe bastato fermarlo subito, e l’ennesimo scandalo che
terremota la politica campana e nazionale non esisterebbe.
Invece, quando De Luca vinse le primarie, Renzi gli permise
di rappresentare il partito del governo alle elezioni regionali. De Luca
imbarcò di tutto nelle liste fiancheggiatrici, anche gli amici di Cosentino e
del clan dei Casalesi, e il Pd zitto.
Quando il Fatto e Roberto Saviano denunciarono in beata solitudine le sue liste
alla Gomorra, De Luca insultò il Fatto e Saviano, e il Pd zitto.
E quando Rosy Bindi, com’era suo dovere di presidente della commissione
Antimafia, pubblicò l’elenco dei condannati in primo grado o in via definitiva
nelle liste del centrodestra e del Pd, Renzi in persona l’attaccò per aver
inserito anche De Luca (che ci stava a pieno titolo, essendo stato condannato
in primo grado per abuso d’ufficio, oltreché salvato dalla prescrizione da una
condanna per smaltimento abusivo di rifiuti e imputato in altri tre processi
per gravi reati) e sciolse i suoi dobermann ad azzannarla.
E quando De Luca vinse anche le Regionali, il Pd gli permise di insediarsi su
una poltrona dove non avrebbe potuto sedere, perché – disse autorevolmente
Renzi, nelle sue vesti di segretario del Pd – si sarebbe trovata “una
soluzione”. Infatti, nelle sue vesti di premier, tentò di varare un decreto
“interpretativo” per cambiare verso alla legge Severino di per sé chiarissima e
non interpretabile. Poi gli spiegarono che avrebbe commesso un abuso d’ufficio
e allora, obtorto collo, il 27 giugno firmò il decreto che sospendeva De Luca
da governatore per 18 mesi, ma subito avvertì che era possibile un ricorso per
sospendere la sospensione da lui stesso decretata. Traduzione: le leggi per i
nemici si applicano e per gli amici si interpretano.
Il 22 luglio fu il Tribunale civile di Napoli a trovare “una
soluzione”: una sentenza à la carte che prendeva sul serio il ridicolo ricorso
del personaggetto, lo lasciava al suo posto e rinviava alla Consulta una legge
chiarissima e legittimissima come la Severino (l’ha confermato la stessa
Consulta il 21 ottobre, respingendo il ricorso del sindaco di Napoli Luigi De
Magistris), peraltro in vigore per gli amministratori locali arrestati o
condannati fin dal lontano 1990. Ora si scopre che la “soluzione” l’aveva
agevolata De Luca, o chi per lui. Alla maniera classica: promettere o fare
favori a Guglielmo Manna, marito della giudice relatrice Anna Scognamiglio,
tramite il capo-segreteria del governatore Nello Mastursi, perché la sentenza
non fosse secondo giustizia, ma secondo De Luca. Il governatore si difende
scajolianamente con l’“a mia insaputa”: se la giudice ha minacciato una sentenza
negativa e il suo segretario ha promesso qualcosa al di lei marito, lui non ne
sapeva nulla. Se anche le cose stessero così, De Luca se ne dovrebbe andare di
corsa, perché il segretario se l’è scelto lui, e se l’è tenuto anche dopo che
prese a calci un giornalista molesto in campagna elettorale, e soprattutto
Mastursi ha agito nel suo interesse. Si chiama “culpa in eligendo”, e anche “in
vigilando”.
Ma c’è di più: lo scandalo che l’ha portato – per l’ennesima
volta – sul registro degli indagati per concussione è noto a De Luca dal 29
ottobre, quando il suo braccio destro Mastursi ha subìto una perquisizione
della Squadra Mobile per ordine della Procura di Roma e ha ricevuto il relativo
decreto in cui c’è scritto che, insieme con lui, sono indagati il governatore,
la giudice, il di lei marito e alcuni intermediari. Mastursi lunedì si è
dimesso, sostenendo di essere un po’ stanchino. De Luca, dopo aver taciuto
l’indagine a proprio carico per dieci giorni, ha coperto per due la maxi-balla
del segretario e l’ha rilanciata, spiegando che il suo fedelissimo neoindagato
e perquisito se n’era andato “per ragioni personali” e ringraziandolo molto a
nome della Regione “per la collaborazione e il lavoro intensissimo di questi
mesi”. Nemmeno una parola sull’indagine a carico di Mastursi e di se stesso
fino all’altro ieri sera, quando i giornalisti hanno scoperto la notizia, ormai
pubblica come il decreto di perquisizione.
Quindi De Luca, nella migliore delle ipotesi, ha mentito agli
italiani, e su una questione un po’ più seria degli scontrini dei pranzi, delle
cene e dei vini di Ignazio Marino. Eppure il premier e il Pd, così fulminei nel
pretendere la testa del presunto bugiardo Marino (non ancora indagato) e le
dimissioni davanti al notaio di tutti i suoi consiglieri comunali, sul sicuro
bugiardo De Luca (indagato, e per corruzione di un giudice) non dicono e non
fanno nulla. Cioè lo lasciano su una poltrona che per legge non potrebbe
occupare e che, per giunta, la pur prudentissima Procura di Roma sospetta
essere stata comprata con tangenti giudiziarie. Chissà che altro deve succedere
perché De Luca se ne vada a casa: forse Renzi aspetta che il personaggetto
scivoli sullo scontrino di una sfogliatella o di un babà. Quello sì sarebbe uno
scandalo.
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