L’azienda chiede i permessi per scavare? Si possono
prevedere modifiche al piano regolatore e ritardare i lavori
Se un sindaco vuole opporsi alle trivelle ha i mezzi per
farlo. Ma deve conoscerli, e deve resistere alla tentazione delle royalty:
soldi che fanno vincere una campagna elettorale o con cui si può sistemare un
bilancio”. Il senatore dei Cinque Stelle Vito Petrocelli, lucano, conosce
numeri e storia dei pozzi petroliferi della Basilicata, nota anche come il
“Texas italiano” per quel greggio che ha nelle viscere.
È soprattutto lì , nelle decine di Comuni lucani che
ospitano pozzi petroliferi, che si gioca la partita delle trivelle su
terraferma: milioni in cambio di territorio, più rogne eventuali. I colossi
petroliferi offrono denaro, royalty. Per estrarre, sopra le 20mila tonnellate
all’anno (fino a questo limite non versano nulla) le imprese pagano il 7 per cento
del valore di ogni barile a Stato, Regioni e ed enti locali, più un tre cento
per un fondo di riduzione del prezzo dei carburanti (ma al Sud l’85 per cento
va direttamente alle Regioni). Il prezzo del petrolio continua a crollare, però
sono comunque milioni di euro. Eppure c’è chi dice no, tra i sindaci. E c’è chi
vuole aiutarli a dire no, come Petrocelli. Che esorta a difendersi in punta di
norma, sfruttando permessi e rischi idrogeologici. Prima però elenca i
(possibili) guai da petrolio: “Gli amministratori locali lo negano, ma negli
ultimi venti anni in Basilicata l’incidenza di molti tumori è stata doppia
rispetto alla media nazionale: lo dicono i dati dell’Istituto nazionale dei
tumori di Milano”. Poi c’è l’acqua: “Le estrazioni petrolifere rischiano di
intaccare le nostre risorse idriche potabili, che servono tre milioni di
persone”. E soprattutto c’è la politica del futuro: “Le ri sorse fossili sono
limitate, soprattutto in Italia, ed è antistorico sovra sfruttarle. L’Europa ci
impone di produrre il 35 per cento dell’energia da fonti rinnovabili entro il
2030, e invece il governo con il decreto Sblocca Italia spalanca le porte alle
trivelle, puntando sui ricavi. Ma il prezzo non vale la candela”. E allora?
“Bisogna opporsi”. Certo, lo Sblocca Italia ha semplificato la vita ai colossi
petroliferi. Se le Regioni fanno storie per concedere i permessi per estrarre,
il Ministero per lo Sviluppo economico può avocare a se tutto e dare il via
libera. Ma dai Comuni bisogna pur sempre passare.
Ed ecco la prima trincea di Petrocelli: “Le aziende devono
chiedere i permessi al Comune perché devono costruire: dalle piattaforme su cui
innestare i pozzi, dai piazzali per le apparecchiature, fino alla creazione di
strade. E l’amministrazione può rispondere cambiando destinazione d’uso
all’area del pozzo. Per esempio, può decidere di farvi un parco pubblico,
modificando il piano regolatore. Perché la modifica sia accettata però deve
mandare apposita richiesta alla Regione: e nell’attesa i lavori per il pozzo
non partono”. Ma non è uno scaricabarile? “No, è una chiamata alla
responsabilità. E comunque consente di rallentare tutto, anche per lungo
tempo”. Poi c’è la via dei rischi idrogeologici: “Tutte le autorità di bacino,
enti interregionali che vigilano sulle area interessate da uno o più fiumi,
stilano tabelle con i rischi. Si va dal livello di pericolo R1, il più alto, a
R4. Nelle aree classificate come R1, per capirci, non si può costruire nulla”.
E quindi? “Se parte di un Comune sorge nei pressi di una zona a rischio, magari
per movimenti franosi, l’amministrazione può chiedere che l’area pericolosa
venga estesa al proprio territorio. Anche in questo caso deve mandare apposita
richiesta in Regione”. Qualcuno ci ha provato? “Certo. Lo hanno fatto a
Viggiano (Potenza), in Val d’Agri, il più grande giacimento di petrolio su
terraferma d’Euro - pa. E i lavori sono stati ritardati di tre a nn i ”. Norme
per rallentare, ostacoli per tem poreg giare. Ma il nodo alla fine è sempre
quello: “I soldi ormai sono pochi, e arrivano a medio termine. Ma a Regioni e
sindaci fanno gola. È il prezzo per il nostro territorio”. A norma di legge,
come i mezzi per resistere.
Luca De Carolis – Il Fatto Quotidiano – 4 Marzo 2016 – pag.
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