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venerdì 4 marzo 2016

NOTRIV - IL RAPPORTO DI GREENPEACE I dati forniti dal ministero dell’Ambiente confermano le emissioni - Attorno alle piattaforme, i livelli di mercurio superano il limite di legge nell’86 per cento dei casi “Le trivelle avvelenano il mare”

Cozze rivelatrici “L’Ispra effettua analisi su acqua e molluschi, ma è anche il vigilante pubblico su temi ambientali”
Il 17 aprile si avvicina e così anche il referendum sulle trivelle con il quale gli italiani saranno chiamati a esprimersi sulla durata dei giacimenti petroliferi già in sfruttamento. Intanto, ognuno gioca le sue carte: il comitato ‘pro trivelle’ si è delineato da pochi giorni, sotto la spinta dell’azienda di lobbying Reti di Claudio Velardi e guidato da Gianfranco Borghini, nuclearista, politico di lunga data, ex presidente della Gepi. Se il loro obiettivo è “sfatare, dati alla mano, tutte le bugie di chi nella Penisola si oppone strumentalmente alle trivellazioni”, la risposta “dati alla mano” del fronte NO TRIV è già arrivata.
È luglio quando Greenpeace, con un’istanza pubblica di accesso agli atti, chiede al ministero dell’Ambiente di ricevere i dati sui monitoraggi delle piattaforme offshore per l’estrazione di gas e petrolio. Secondo quanto scritto sul sito del ministero dello Sviluppo economico, le strutture attive sono circa 130, ma all’associazione vengono consegnati i numeri di sole trenta piattaforme. Anzi, 34: tutte di proprietà dell’Eni e relative all’estrazione del gas nel triennio 2012-2014. Il motivo è ipotizzabile: “Assenza di ogni tipo di controllo per le altre o il fatto che il ministero abbia deciso di non consegnare tutto il materiale”, scrivono gli ambientalisti. A voler essere ottimisti, che siano le uniche a scaricare le acque di produzione (quelle estratte dai pozzi e quelle usate per aumentare la pressione) in mare e quindi costrette a fare i monitoraggi. I rilievi sono stati realizzati dall’Ispra, l’Istituto superiore per la ricerca ambientale che è pubblico ed è sotto la vigilanza del ministero di Galletti. La committenza, invece, è dell’Eni, l’affidamento avvenuto tramite un’apposita convenzione. L’Ispra, però, è anche l’istituto incaricato di valutare le relazioni ambientali presentate al ministero: un controllore che controlla se stesso? A quanto pare sì: da statuto, infatti, può eseguire analisi per conto di privati. Collaboratrici fondamentali, ai fini dell’analisi, sono state le cozze, bio-accumulatori per eccellenza. Il prelievo dei campioni d’acqua, infatti, per l’eccessiva diluizione possono raramente fornire dati precisi mentre i sedimenti e questi molluschi, tecnicamente definiti “mitili”, riescono a dare un quadro chiaro della contaminazione attorno alle piattaforme e in relazione agli organismi viventi. Nel 2012, ad esempio, il 76 per cento dei campioni analizzati ha presentato livelli di contaminazione superiori ai limiti previsti dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Nel 2013 era il 73,5 per cento, nel 2014 il 79. E anche se non sempre le stesse piattaforme sono fuori ripetutamente fuori norma, la percentuale di contaminazione ambientale è “costantemente elevata”.
Il dato di riferimento ha una sigla, SQA, che sta per Standard di Qualità Ambientale. Dalle misurazioni è emerso che nell’86 per cento dei campioni analizzati tra il 2012 e il 2014, il limite di concentrazione del mercurio era superiore a quanto previsto dagli standard di qualità. Per gli altri metalli, invece, non esiste un limite normativo. Così, per misurare, il confronto è stato fatto con la media stagionale delle acque lontane dalle piattaforme e con i dati presenti nella letteratura scientifica specializzata, quella utilizzata anche dall’Ispra per le sue relazioni annuali. Il risultato? L’82 per cento dei mitili presentava livelli di cadmio superiori a quelli del campione di riferimento. Stessa cosa per il selenio (77 per cento) e zinco (63 per cento). “Si tratta di metalli abitualmente associati alle principali attività di estrazione offshore - spiega Greenpeace - derivanti dalla corrosione degli anodi sacrificali in prossimità delle piattaforme per proteggerle dalla corrosione”. Il rischio è che risalgano la catena alimentare e arrivino all’uomo, spiegano gli ambientalisti. Anche perché è impensabile che una piattaforma di centinaia di metri quadrati in mezzo al mare non abbia alcun impatto sull’ambiente contiguo. Se poi estrae idrocarburi, le probabilità sono ancora più ridotte.
Virginia Della Sala – Il Fatto Quotidiano – 4 Marzo 2016 – pag. 9

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