Cozze rivelatrici “L’Ispra effettua analisi su acqua e
molluschi, ma è anche il vigilante pubblico su temi ambientali”
Il 17 aprile si avvicina e così anche il referendum sulle
trivelle con il quale gli italiani saranno chiamati a esprimersi sulla durata
dei giacimenti petroliferi già in sfruttamento. Intanto, ognuno gioca le sue
carte: il comitato ‘pro trivelle’ si è delineato da pochi giorni, sotto la spinta
dell’azienda di lobbying Reti di Claudio Velardi e guidato da Gianfranco
Borghini, nuclearista, politico di lunga data, ex presidente della Gepi. Se il
loro obiettivo è “sfatare, dati alla mano, tutte le bugie di chi nella Penisola
si oppone strumentalmente alle trivellazioni”, la risposta “dati alla mano” del
fronte NO TRIV è già arrivata.
È luglio quando Greenpeace, con un’istanza pubblica di
accesso agli atti, chiede al ministero dell’Ambiente di ricevere i dati sui
monitoraggi delle piattaforme offshore per l’estrazione di gas e petrolio.
Secondo quanto scritto sul sito del ministero dello Sviluppo economico, le
strutture attive sono circa 130, ma all’associazione vengono consegnati i
numeri di sole trenta piattaforme. Anzi, 34: tutte di proprietà dell’Eni e
relative all’estrazione del gas nel triennio 2012-2014. Il motivo è
ipotizzabile: “Assenza di ogni tipo di controllo per le altre o il fatto che il
ministero abbia deciso di non consegnare tutto il materiale”, scrivono gli
ambientalisti. A voler essere ottimisti, che siano le uniche a scaricare le
acque di produzione (quelle estratte dai pozzi e quelle usate per aumentare la
pressione) in mare e quindi costrette a fare i monitoraggi. I rilievi sono
stati realizzati dall’Ispra, l’Istituto superiore per la ricerca ambientale che
è pubblico ed è sotto la vigilanza del ministero di Galletti. La committenza,
invece, è dell’Eni, l’affidamento avvenuto tramite un’apposita convenzione. L’Ispra,
però, è anche l’istituto incaricato di valutare le relazioni ambientali
presentate al ministero: un controllore che controlla se stesso? A quanto pare
sì: da statuto, infatti, può eseguire analisi per conto di privati.
Collaboratrici fondamentali, ai fini dell’analisi, sono state le cozze, bio-accumulatori
per eccellenza. Il prelievo dei campioni d’acqua, infatti, per l’eccessiva
diluizione possono raramente fornire dati precisi mentre i sedimenti e questi
molluschi, tecnicamente definiti “mitili”, riescono a dare un quadro chiaro
della contaminazione attorno alle piattaforme e in relazione agli organismi
viventi. Nel 2012, ad esempio, il 76 per cento dei campioni analizzati ha
presentato livelli di contaminazione superiori ai limiti previsti dalle norme
comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Nel 2013 era il 73,5 per cento,
nel 2014 il 79. E anche se non sempre le stesse piattaforme sono fuori
ripetutamente fuori norma, la percentuale di contaminazione ambientale è
“costantemente elevata”.
Il dato di riferimento ha una sigla, SQA, che sta per
Standard di Qualità Ambientale. Dalle misurazioni è emerso che nell’86 per
cento dei campioni analizzati tra il 2012 e il 2014, il limite di
concentrazione del mercurio era superiore a quanto previsto dagli standard di
qualità. Per gli altri metalli, invece, non esiste un limite normativo. Così,
per misurare, il confronto è stato fatto con la media stagionale delle acque
lontane dalle piattaforme e con i dati presenti nella letteratura scientifica
specializzata, quella utilizzata anche dall’Ispra per le sue relazioni annuali.
Il risultato? L’82 per cento dei mitili presentava livelli di cadmio superiori
a quelli del campione di riferimento. Stessa cosa per il selenio (77 per cento)
e zinco (63 per cento). “Si tratta di metalli abitualmente associati alle
principali attività di estrazione offshore - spiega Greenpeace - derivanti
dalla corrosione degli anodi sacrificali in prossimità delle piattaforme per
proteggerle dalla corrosione”. Il rischio è che risalgano la catena alimentare
e arrivino all’uomo, spiegano gli ambientalisti. Anche perché è impensabile che
una piattaforma di centinaia di metri quadrati in mezzo al mare non abbia alcun
impatto sull’ambiente contiguo. Se poi estrae idrocarburi, le probabilità sono
ancora più ridotte.
Virginia Della Sala – Il Fatto Quotidiano – 4 Marzo 2016 –
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