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DI BATTISTA - 11.05.2016 OTTOEMEZZO

11.05.2016 - ALFONSO BONAFEDE (M5S) Unioni civili: tutta la verità in faccia al governo

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venerdì 18 marzo 2016

Trivelle, il Pd si astiene. È contro le sue Regioni Serracchiani e Guerini: “È inutile”. Minoranza Dem e ambientalisti in rivolta

Perché un partito che porta nel proprio nome il richiamo alla sovranità popolare svilisce così gravemente un istituto fondamentale di democrazia diretta come il referendum? Per una forza nata in risposta al crollo della prima Repubblica, riecheggiare il Craxi che invitava gli italiani ad andare al mare invece di votare non mi pare un bel traguardo”. Domanda e osservazioni sono legittime, poste da Andrea Boraschi, responsabile della campagna clima ed energia di Greenpeace, il primo ad accorgersi della presenza del Partito democratico tra i soggetti politici favorevoli all’astensione per il referendum del 17 aprile. In effetti, nella giornata di ieri, dentro e fuori dal Pd di democratico c’è stato ben poco. Dentro, perché la decisione di schierarsi per l’astensione non è stata discussa in assemblea né tantomeno era prevista nell’ordine del giorno della direzione nazionale di lunedì prossimo (“analisi della situazione economica, ratifica commissariamento Pd provinciale di Caserta, varie ed eventuali” i punti all’ordine del giorno). Fuori, perché per molti parlamentari dem istigare ad astenersi dal confronto elettorale, nato poi dalla legittima richiesta di nove consigli regionali come previsto dalla Costituzione (ne basterebbero cinque) è un atto “fortemente antidemocratico”.
Una cosa è certa: il referendum sulle trivelle sta spaccando il Pd più di quanto non lo sia già. Fratture tra maggioranza e minoranza, tra Roma e Regioni, tra elettori e rappresentanti. Ieri, per tutta la giornata, nelle stanze di governo un po’ tutti chiedevano spiegazioni su quella parola, “astensione”, segnata nell’area Par Condicio dell’Agcom: dai civatiani a Sinistra Italiana, da Roberto Speranza ai parlamentari dem – passando per Stumpo, Cuperlo e Gotor – da Legambiente ai Verdi e fino ai Cinque Stelle (che hanno anche scritto al direttore editoriale Rai Verdelli per segnalare la criticità dell’informazione sul referendum). Finalmente, un segno di vita nel pomeriggio. A rispondere, i vicesegretari del partito Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini: quello sulle trivellazioni è un referendum “inutile”, la decisione l’hanno presa loro “come vicesegretari”, e lunedì “sarà ratificata durante la direzione”. Poi, il colpo basso della spesa, quei 300 milioni di euro che si spenderanno per la consultazione e che sarebbero potuti essere destinati ad “asili nido, a scuole, alla sicurezza, all’ambiente”. Ma che, è stata la pronta risposta trasversale, si sarebbe potuto evitare di spendere con un election day (ci vorrebbe un decreto legge ad hoc, aveva detto Alfano durante un question time in Parlamento a febbraio) e che in tanti hanno chiesto per settimane ricordando come, nel 2009, fossero state uniti i ballottaggi delle amministrative al referendum in materia elettorale. “Per evitare i costi del referendum, sarebbe bastato indirlo nella stessa data delle elezioni amministrative”, ha detto il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd), che nella sua replica ha sottolineato come le Regioni –sette su nove targate Pd – avessero in origine provato a mediare più volte con il governo sul tema trivellazioni, ricevendo come risposta una comunicazione del sottosegretario Vicari: il governo semplicemente non voleva incontrarle. “Se il governo avesse voluto discutere, avremmo potuto certamente evitare il referendum sin dall’inizio”. Conferma del fatto che l’obiettivo è, prima di tutto, togliere potere decisionale alle Regioni in tema ambientale. Come per gli inceneritori.
Tra le motivazioni di Guerini e Serracchiani, quella dei presunti posti di lavoro che si perderebbero se il referendum dovesse abrogare la legge dello Sblocca Italia, che estende le concessioni fino all’esaurimento del giacimento. Una prima risposta era già arrivata dai comitati No Triv: la prima concessione entro le 12 miglia scadrà tra almeno cinque anni e molte hanno ancora diverse proroghe di cui godere (il referendum chiede che non siano rinnovate alla loro scadenza). Emiliano è stato ancora più preciso. “Ho sentito questa affermazione erronea anche dal Segretario nazionale del partito durante una lezione alla scuola di formazione politica del Pd”, ha detto prima di spiegare che, in caso di abrogazione, tornerebbe in vigore la norma precedente (legge 9/91) che non ha mai determinato licenziamenti e che confermerebbe l’iter secondo cui il permesso di estrazione degli idrocarburi dura trent’anni, prorogabili per dieci anni e poi all'infinito di cinque anni in cinque anni senza alcuna interruzione della attività estrattiva. “Un sistema con processi di verifica e controllo migliori di quelli previsti nello Sblocca Italia. Stasera non sono contento del mio partito e del panico in cui cade troppo spesso nei casi in cui la coscienza si divide dalla verità”, spiega Emiliano. E sul fabbisogno? Secondo i comitati per il sì, le riserve di petrolio presenti nel mare italiano basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico e quelle di gas appena 6 mesi.
Virginia Della Sala – Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2016 – pag. 6

martedì 15 marzo 2016

Trivelle, pochi sanno (ma la maggioranza non le vuole affatto)

Manca poco più di un mese al referendum sulle trivelle: la consultazione, chiesta e ottenuta da dieci Regioni, riguarderà lo stop alle trivellazioni in mare per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia marine. Se il quorum verrà raggiunto e vinceranno i sì, le concessioni attualmente in vigore non potranno essere rinnovate in modo automatico per sfruttare i giacimenti fino al loro esaurimento. Le motivazioni dei promotori del referendum sono essenzialmente di tipo ambientalista: sostengono che le trivellazioni siano una minaccia per l’ecosistema marino, e che un eventuale incidente possa causare un vero e proprio disastro biologico.
Si tratta quindi di un referendum di impronta ambientalista: non il primo nella storia italiana, e di certo non l’ultimo. Il primo precedente storico può essere individuato in quel referendum che nel 1987 fermò la produzione di energia nucleare in Italia. I tre quesiti, promossi dai Radicali, furono approvati con percentuali di sì tra il 72% e l’80%, con un’affluenza del 65%. Sull’esito di quel referendum ebbe un forte impatto –come è facile immaginare – il disastro della centrale nucleare di Chernobyl avvenuto solo un anno prima. Anche i successivi referendum del 1990 sulla caccia e sull’uso dei fitofarmaci in agricoltura avevano un’impronta ambientalista, tanto che tra i promotori vi erano anche i Verdi, ma stavolta il quorum non fu raggiunto (l’affluenza si fermò al 43%). Proprio la nascita dei Verdi come partito nazionale testimonia come la sensibilità ambientalista si fosse ormai diffusa in Italia, al punto che nella prima metà degli anni 90 i Verdi ottennero ottimi risultati in occasione di elezioni nazionali: dopo il “boom” delle Europee del 1989 (1,3 milioni di voti e quasi il 4%), il partito ambientalista riuscì a conquistare circa un milione di voti anche in occasione delle Politiche del ’92, del ’94 e del ’96, sempre in coalizioni di centro-sinistra, e alle Europee del 1999. Gradualmente, negli anni successivi, i Verdi persero di importanza, fino a “sciogliersi” in altre liste e senza più eleggere rappresentanti. Ma le tematiche legate all’ambiente non sono scomparse, anzi sono riemerse clamorosamente nel 2011, quando si è tenuta una nuova tornata referendaria: questa volta, oltre a un quesito che abrogava la possibilità di costruire nuove centrali nucleari in Italia, si votò anche per mantenere pubblica la gestione dei servizi idrici. Similmente a quanto accadde nel lontano ’87, anche stavolta un disastro nucleare avvenuto all’estero (quello di Fukushima, in Giappone), gonfiò le vele del comitato referendario, e i referendum superarono il quorum con quasi il 55% degli aventi diritto. Sembrava l’inizio di una nuova stagione di sensibilizzazione verso i temi della tutela delle risorse naturali, ma sul finire di quello stesso anno la pesantissima crisi finanziaria rimise tutto in discussione. Al punto che alle elezioni politiche successive, meno di due anni dopo, nessuno parlò di temi legati all’ambiente. Secondo uno studio delle ricercatrici Bianchi e Chianale dell’Osservatorio di Pavia, nei tre mesi della campagna elettorale che hanno preceduto le Politiche 2013, i temi legati all’ambiente ottennero solo l’1,4% di copertura sulle reti televisive del servizio pubblico, e il 3,8% sui canali Mediaset; complessivamente, telegiornali e talk show dedicarono un misero 0,1% ai temi ambientali, che ottenevano un po’ più di spazio solo nei programmi di satira (6,3%). La tutela dell’ambiente è stata poco importante anche nel determinare le scelte di voto alle Europee dell’anno successivo: un sondaggio del Cise rivelò che ben il 14,3% degli italiani riteneva che Sel fosse il partito più credibile per combattere inquinamento e dissesto del territorio, ma solo l’1,9% dello stesso campione esprimeva un’intenzione di voto conseguente. Cosa dobbiamo aspettarci dai referendum del prossimo 17 aprile? Secondo un sondaggio SWG realizzato il mese scorso, gli italiani sono molto sensibili ai temi ambientali: il 52% pensa che la qualità dell’ambiente sia seriamente minacciata, e il 64% che la tutela dell’ambiente sia una necessità. Non molti sono a conoscenza del referendum, però: solo il 22% dice di esserne informato, mentre il 40% ne ha solo sentito parlare. Sia quelli che approvano le trivellazioni (37%) sia quelli che vi sono contrari (56%) in grande maggioranza pongono il tema della tutela dell’ecosistema marino. Di conseguenza, la stragrande maggioranza degli intervistati (il 78%) voterebbe sì al referendum sulle trivelle. Sembra che il successo di un nuovo referendum ambientalista sia a portata di mano, tutto si giocherà – come sempre quando si tratta di referendum – sulla conoscenza dei quesiti e sull’affluenza alle urne.
Salvatore Borghese - Il Fatto Quotidiano – 15 marzo 2016 – pag. 5

venerdì 11 marzo 2016

Notriv, si vota tra un mese e nessuno sa ancora niente

Gli spot partiranno (forse) a 28 giorni dalle urne: la legge ne prevede almeno trenta 
Stop alle trivelle in terra e mare, Sì all’energia solare”: a dirlo, cartellone bianco tra le mani con un “Sì” scritto a penna è Camilla Nigro. Il video arriva in redazione: alle sue spalle una trivella, cielo azzurro e qualche nuvola. “Questa è una delle quaranta trivelle che bucano la nostra valle, Viggiano, in Basilicata”, dice Camilla. La sua richiesta mediatica è di andare a votare al referendum. “Il 17 aprile - conclude - dimmi di Sì”.
L’oscuramento. Al di là delle campagne di sensibilizzazione individuali da Nord a Sud e dei comitati territoriali, a livello informativo c’è ancora silenzio istituzionale: di tribune elettorali e spot in tv, a 37 giorni dalla consultazione, non c'è traccia. Un video del Fattoquotidiano.it ha mostrato come gli italiani siano ancora molto disinformati, a poco più di un mese dal voto. Alcuni non sanno neanche che è previsto un referendum abrogativo per il quale è necessario raggiungere il quorum (la metà degli aventi diritto al voto, più uno). Prima c’è stata la protesta delle Regioni: inizialmente, l’indicazione dell'Agcom impediva ai consigli regionali e ai delegati dei consigli regionali di essere considerati come soggetti politici. “Non si poteva impedire alle Regioni di fare la campagna per il Sì, visto che siamo gli unici comitati promotori –ha spiegato al fatto Piero Lacorazza, presidente del consiglio regionale della Basilicata e uno dei delegati regionali - perciò abbiamo discusso con la commissione di vigilanza Rai e con l’Agcom e siamo arrivati ad una conclusione inedita che prevede che i delegati regionali per i quesiti referendari possano partecipare alle tribune referendarie, ad esempio, come soggetti politici”. In Rai c’è però già la circolare sulla par condicio nei programmi giornalistici. Per quelli che non riguardano l’in - formazione, si chiede di firmare una liberatoria che vieta di parlare di trivelle.
La data. Intanto, c’è una data. Gli spot televisivi inizieranno ad essere trasmessi dal 19 marzo, a 28 giorni dal referendum (due in meno rispetto a quelli previsti dalla legge sulla pa r condicio). Un recupero sul filo del rasoio: già nei mesi scorsi i comitati No Triv avevano esposto i loro dubbi sui tempi eccessivamente ristretti intercorsi tra l'approvazione del quesito da parte della Cassazione e la decisione della data. Per fare campagna sia per il sì che per il no, dicevano, c'era troppo poco tempo e anche per questo motivo chiedevano un election day con le amministrative che non è arrivato. Ora, si è costretti a fare tutto di corsa e anche l’informazione Trivelle, si vota tra un mese e nessuno sa ancora niente Gli spot partiranno (forse) a 28 giorni dalle urne: la legge ne prevede almeno trenta pura procede lentamente. “È inaccettabile che non si faccia informazione - dicono i No Triv -, non tanto per in No o per il Sì, quanto per il referendum in generale. Nè mass media nè governo sembrano interessati e manca ancora una comunicazione istituzionale”.
La campagna. A sopperire il dilatarsi dei tempi, ci stanno pensando però brand e Social Network. L’azienda della pasta “La Molisana”, ad esempio, ha rilanciato la pubblicità contro le trivelle già circolata nel 2011 quando si temeva sarebbero state bucate le Isole Tremiti, in Puglia, e quando in loro difesa si schierarono artisti come Lucio Dalla e Renato Zero. “Niente trivelle, solo fusilli” scrivevano riferendosi alla somiglianza tra i due oggetti. Oggi è uno dei post più apprezzati sulle piattaforme. La stessa idea è stata rilanciata da un'altra azienda di pasta e anche dall'impresa siciliana di vini “Planeta” con lo slogan “Noi trivelliamo solo tappi di sughero”. In primo piano, nella foto, un cavatappi in azione su una bottiglia di vino. Ieri, dalla sua pagina Facebook, anche Forza Nuova si è schierata a favore del Sì.
L'altro fronte. Quelli del No o, come preferiscono, quelli “contro il referendum”, si chiamano “Ottimisti e Razionali” (come anticipato da Fq Insider qualche settimana fa). Un comitato composto da personalità provenienti soprattutto dal mondo dell'impresa: come Chicco Testa, ambientalista pentito, oggi a capo di Assoelettrica a Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. A capo, Gianfranco Borghini, nuclearista con un passato da parlamentare nel Pci prima e poi nel Pds. Una delle loro prime mosse è stata la dura critica al rapporto di Greenpeace che dimostrava, su dati ministeriali, forniti dalla stessa Eni e basati su rilievi Ispra, come nei pressi delle piattaforme petrolifere ci fossero elementi tossici in concentrazioni superiori a quanto previsto dai limiti di legge.
I numeri. Le trivelle che rientrano nella zona delle 12 miglia dalla costa (il quesito referendario si riferisce a loro e alla durata delle concessioni, come spiegato nel box in questa pagina) sono almeno 135, secondo i rilievi del governo e si tratta di strutture che dipendono da circa 25 concessioni rilasciate dal ministero. “Le critiche mosse in questi giorni - spiega Enzo Di Salvatore, a capo del coordinamento No Triv - hanno riguardato soprattutto i posti di lavoro. È stato detto che se passasse il Sì, ci sarebbero licenziamenti immediati. Ma è un punto di vista disonesto: le prime concessioni scadono tra almeno cinque anni, altre tra 10, altre ancora tra 20. Quindi anche i posti di lavoro sarebbero legati alla scadenza naturale delle piattaforme”.

Virginia Della Sala – Il Fatto Quotidiano – 11/3/2016 – pag. 5

venerdì 4 marzo 2016

NOTRIV: VADEMECUM - Il senatore M5s Petrocelli: ”I territori hanno gli strumenti legislativi per fare resistenza” Così i Comuni possono respingere i pozzi

L’azienda chiede i permessi per scavare? Si possono prevedere modifiche al piano regolatore e ritardare i lavori
Se un sindaco vuole opporsi alle trivelle ha i mezzi per farlo. Ma deve conoscerli, e deve resistere alla tentazione delle royalty: soldi che fanno vincere una campagna elettorale o con cui si può sistemare un bilancio”. Il senatore dei Cinque Stelle Vito Petrocelli, lucano, conosce numeri e storia dei pozzi petroliferi della Basilicata, nota anche come il “Texas italiano” per quel greggio che ha nelle viscere.
È soprattutto lì , nelle decine di Comuni lucani che ospitano pozzi petroliferi, che si gioca la partita delle trivelle su terraferma: milioni in cambio di territorio, più rogne eventuali. I colossi petroliferi offrono denaro, royalty. Per estrarre, sopra le 20mila tonnellate all’anno (fino a questo limite non versano nulla) le imprese pagano il 7 per cento del valore di ogni barile a Stato, Regioni e ed enti locali, più un tre cento per un fondo di riduzione del prezzo dei carburanti (ma al Sud l’85 per cento va direttamente alle Regioni). Il prezzo del petrolio continua a crollare, però sono comunque milioni di euro. Eppure c’è chi dice no, tra i sindaci. E c’è chi vuole aiutarli a dire no, come Petrocelli. Che esorta a difendersi in punta di norma, sfruttando permessi e rischi idrogeologici. Prima però elenca i (possibili) guai da petrolio: “Gli amministratori locali lo negano, ma negli ultimi venti anni in Basilicata l’incidenza di molti tumori è stata doppia rispetto alla media nazionale: lo dicono i dati dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano”. Poi c’è l’acqua: “Le estrazioni petrolifere rischiano di intaccare le nostre risorse idriche potabili, che servono tre milioni di persone”. E soprattutto c’è la politica del futuro: “Le ri sorse fossili sono limitate, soprattutto in Italia, ed è antistorico sovra sfruttarle. L’Europa ci impone di produrre il 35 per cento dell’energia da fonti rinnovabili entro il 2030, e invece il governo con il decreto Sblocca Italia spalanca le porte alle trivelle, puntando sui ricavi. Ma il prezzo non vale la candela”. E allora? “Bisogna opporsi”. Certo, lo Sblocca Italia ha semplificato la vita ai colossi petroliferi. Se le Regioni fanno storie per concedere i permessi per estrarre, il Ministero per lo Sviluppo economico può avocare a se tutto e dare il via libera. Ma dai Comuni bisogna pur sempre passare.
Ed ecco la prima trincea di Petrocelli: “Le aziende devono chiedere i permessi al Comune perché devono costruire: dalle piattaforme su cui innestare i pozzi, dai piazzali per le apparecchiature, fino alla creazione di strade. E l’amministrazione può rispondere cambiando destinazione d’uso all’area del pozzo. Per esempio, può decidere di farvi un parco pubblico, modificando il piano regolatore. Perché la modifica sia accettata però deve mandare apposita richiesta alla Regione: e nell’attesa i lavori per il pozzo non partono”. Ma non è uno scaricabarile? “No, è una chiamata alla responsabilità. E comunque consente di rallentare tutto, anche per lungo tempo”. Poi c’è la via dei rischi idrogeologici: “Tutte le autorità di bacino, enti interregionali che vigilano sulle area interessate da uno o più fiumi, stilano tabelle con i rischi. Si va dal livello di pericolo R1, il più alto, a R4. Nelle aree classificate come R1, per capirci, non si può costruire nulla”. E quindi? “Se parte di un Comune sorge nei pressi di una zona a rischio, magari per movimenti franosi, l’amministrazione può chiedere che l’area pericolosa venga estesa al proprio territorio. Anche in questo caso deve mandare apposita richiesta in Regione”. Qualcuno ci ha provato? “Certo. Lo hanno fatto a Viggiano (Potenza), in Val d’Agri, il più grande giacimento di petrolio su terraferma d’Euro - pa. E i lavori sono stati ritardati di tre a nn i ”. Norme per rallentare, ostacoli per tem poreg giare. Ma il nodo alla fine è sempre quello: “I soldi ormai sono pochi, e arrivano a medio termine. Ma a Regioni e sindaci fanno gola. È il prezzo per il nostro territorio”. A norma di legge, come i mezzi per resistere.
Luca De Carolis – Il Fatto Quotidiano – 4 Marzo 2016 – pag. 9


NOTRIV - IL RAPPORTO DI GREENPEACE I dati forniti dal ministero dell’Ambiente confermano le emissioni - Attorno alle piattaforme, i livelli di mercurio superano il limite di legge nell’86 per cento dei casi “Le trivelle avvelenano il mare”

Cozze rivelatrici “L’Ispra effettua analisi su acqua e molluschi, ma è anche il vigilante pubblico su temi ambientali”
Il 17 aprile si avvicina e così anche il referendum sulle trivelle con il quale gli italiani saranno chiamati a esprimersi sulla durata dei giacimenti petroliferi già in sfruttamento. Intanto, ognuno gioca le sue carte: il comitato ‘pro trivelle’ si è delineato da pochi giorni, sotto la spinta dell’azienda di lobbying Reti di Claudio Velardi e guidato da Gianfranco Borghini, nuclearista, politico di lunga data, ex presidente della Gepi. Se il loro obiettivo è “sfatare, dati alla mano, tutte le bugie di chi nella Penisola si oppone strumentalmente alle trivellazioni”, la risposta “dati alla mano” del fronte NO TRIV è già arrivata.
È luglio quando Greenpeace, con un’istanza pubblica di accesso agli atti, chiede al ministero dell’Ambiente di ricevere i dati sui monitoraggi delle piattaforme offshore per l’estrazione di gas e petrolio. Secondo quanto scritto sul sito del ministero dello Sviluppo economico, le strutture attive sono circa 130, ma all’associazione vengono consegnati i numeri di sole trenta piattaforme. Anzi, 34: tutte di proprietà dell’Eni e relative all’estrazione del gas nel triennio 2012-2014. Il motivo è ipotizzabile: “Assenza di ogni tipo di controllo per le altre o il fatto che il ministero abbia deciso di non consegnare tutto il materiale”, scrivono gli ambientalisti. A voler essere ottimisti, che siano le uniche a scaricare le acque di produzione (quelle estratte dai pozzi e quelle usate per aumentare la pressione) in mare e quindi costrette a fare i monitoraggi. I rilievi sono stati realizzati dall’Ispra, l’Istituto superiore per la ricerca ambientale che è pubblico ed è sotto la vigilanza del ministero di Galletti. La committenza, invece, è dell’Eni, l’affidamento avvenuto tramite un’apposita convenzione. L’Ispra, però, è anche l’istituto incaricato di valutare le relazioni ambientali presentate al ministero: un controllore che controlla se stesso? A quanto pare sì: da statuto, infatti, può eseguire analisi per conto di privati. Collaboratrici fondamentali, ai fini dell’analisi, sono state le cozze, bio-accumulatori per eccellenza. Il prelievo dei campioni d’acqua, infatti, per l’eccessiva diluizione possono raramente fornire dati precisi mentre i sedimenti e questi molluschi, tecnicamente definiti “mitili”, riescono a dare un quadro chiaro della contaminazione attorno alle piattaforme e in relazione agli organismi viventi. Nel 2012, ad esempio, il 76 per cento dei campioni analizzati ha presentato livelli di contaminazione superiori ai limiti previsti dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Nel 2013 era il 73,5 per cento, nel 2014 il 79. E anche se non sempre le stesse piattaforme sono fuori ripetutamente fuori norma, la percentuale di contaminazione ambientale è “costantemente elevata”.
Il dato di riferimento ha una sigla, SQA, che sta per Standard di Qualità Ambientale. Dalle misurazioni è emerso che nell’86 per cento dei campioni analizzati tra il 2012 e il 2014, il limite di concentrazione del mercurio era superiore a quanto previsto dagli standard di qualità. Per gli altri metalli, invece, non esiste un limite normativo. Così, per misurare, il confronto è stato fatto con la media stagionale delle acque lontane dalle piattaforme e con i dati presenti nella letteratura scientifica specializzata, quella utilizzata anche dall’Ispra per le sue relazioni annuali. Il risultato? L’82 per cento dei mitili presentava livelli di cadmio superiori a quelli del campione di riferimento. Stessa cosa per il selenio (77 per cento) e zinco (63 per cento). “Si tratta di metalli abitualmente associati alle principali attività di estrazione offshore - spiega Greenpeace - derivanti dalla corrosione degli anodi sacrificali in prossimità delle piattaforme per proteggerle dalla corrosione”. Il rischio è che risalgano la catena alimentare e arrivino all’uomo, spiegano gli ambientalisti. Anche perché è impensabile che una piattaforma di centinaia di metri quadrati in mezzo al mare non abbia alcun impatto sull’ambiente contiguo. Se poi estrae idrocarburi, le probabilità sono ancora più ridotte.
Virginia Della Sala – Il Fatto Quotidiano – 4 Marzo 2016 – pag. 9

sabato 13 febbraio 2016

Trivelle, assedio al Colle: “Salviamo il referendum” Ecologisti e Grillo: appello a Mattarella per la tornata unica con le Comunali

"Guardi, ora sono con delle persone, risentiamoci più tardi”. Clic. Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, poi per tutto il giorno risulterà irraggiungibile. La domanda che gli avevamo fatto era sul mancato election day. Ovvero cosa ne pensa del fatto che il governo ha deciso di far tenere il referendum sulle trivellazioni in mare per il petrolio il 17 aprile, senza invece accorparlo al primo turno delle elezioni amministrative, consentendo così di risparmiare oltre 300 milioni di euro. Cifra poco inferiore ai 402 milioni di euro raccolti dallo Stato nel 2014 per le royalties sulle attività petrolifere. La domanda l’abbiamo rivolta a Franceschini perché fu lui, nel 2011, a sostenere con forza l’election day in occasione dei quattro referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento. A Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi e il Pd chiese con forza di accorpare i quesiti alle amministrative di primavera. “Dire no all’election day significa buttare dalla finestra almeno 300 milioni di euro, in un momento in cui le imprese e le famiglie italiane sono in grande difficoltà. E unicamente per impedire che il referendum sul legittimo impedimento raggiunga il quorum”, diceva allora l’attuale ministro dei Beni culturali.
Quando i dem gridavano allo scandalo
Oggi molto deve essere cambiato, perché non è stato emesso nemmeno un fiato. E anche in questo caso l’intento dell’esecutivo – di cui però ora Franceschini fa parte – sembra essere lo stesso: sabotare il raggiungimento del quorum. In Parlamento, nel 2011, fu addirittura presentata una mozione firmata, tra gli altri, da Ventura, Maran, Calipari, Boccia, Quartiani, Giachetti, Rosato. Già proprio Ettore Rosato, l’attuale capogruppo a Montecitorio, che ora invece, come tutti suoi colleghi, tace. La mozione fu poi bocciata per un solo voto, con grande disappunto di Matteo Renzi, allora sindaco di Firenze, che criticò le troppe assenze in Parlamento nelle file del Pd al momento del voto. Ma non è la prima volta che accade. Anche nel 2009 il Pd si scagliò contro il mancato accorpamento di elezioni e referendum. All’epoca, sempre governo Berlusconi, si chiedeva di unire elezioni europee e referendum abrogativo sul Porcellum, che la Lega osteggiava in tutte le maniere. Alla fine non se ne fece nulla, con grande arrabbiatura del Pd. “Si tratta di una scelta immorale e vergognosa”, tuonava Rosato, sempre lui. “Lanciamo un appello al premier perché faccia una scelta di buon senso, anche alla luce del terremoto a L’Aquila”, gli faceva eco Anna Finocchiaro. E riecco Franceschini. “Berlusconi ci tiene sempre a dimostrare che è lui che comanda, salvo poi piegarsi sempre ai ricatti di Bossi”, diceva l’allora segretario del Pd, da poco succeduto a Walter Veltroni.
Tante associazioni contro l’esecutivo
Insomma, andava così. Oggi, i tempi sono cambiati. Se una scelta la fai tu, va bene, sprechiamo pure 300 milioni. Quando invece la facevano gli altri, si gridava allo scandalo. Sul fronte della protesta, intanto, ieri si sono moltiplicati gli appelli di ambientalisti a governo, Corte Costituzionale e anche al presidente della Repubblica. A Sergio Mattarella si rivolge direttamente il M5S: “Chiediamo al capo dello Stato di intervenire affinché si faccia l’election day, sia per garantire il quorum, sia per far risparmiare 300 milioni di euro”. Tutta una serie di associazioni No Triv chiedono al presidente della Repubblica di non firmare il decreto del governo. “Anche perché – sostengono – così facendo gli italiani sarebbero chiamati alle urne tre volte nel giro di pochi mesi: ad aprile sulle trivellazioni, a giugno sulle amministrative e a ottobre per il referendum confermativo sulle riforme costituzionali”. Inizialmente i quesiti referendari erano sei. Poi, dopo alcune norme approvate nella legge di stabilità, ne è rimasto in piedi uno solo, mentre su due grava un conflitto di attribuzione. Il quesito ammesso si pone l’obbiettivo di abrogare la norma che prevede che le trivellazioni per cui sono già state rilasciate delle concessioni non abbiano una scadenza. Il referendum vuole invece limitare la durata delle concessioni alla loro scadenza naturale, ovvero all’esaurimento dei giacimenti. Altri due quesiti, invece, sono stati dichiarati decaduti dalla Cassazione, ma sei Regioni hanno presentato un conflitto di attribuzione.