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venerdì 11 settembre 2015

INCHIESTA BIS Due militari raccontano: “Il maresciallo era agitato”

“Venne e disse: è un casino Cucchi è stato massacrato”


È successo un casino, hanno massacrato di botte un ragazzo”. È quanto avrebbe detto ad alcuni colleghi Roberto Mandolini, nel 2009 sottufficiale dei carabinieri alla stazione di Roma Appia. Il 15 ottobre 2009 compilò il verbale di arresto di Stefano Cucchi, che morì una settimana dopo. Per anni, chi ha sentito queste parole ha taciuto. Fino a due mesi fa quando i due carabinieri della vicina stazione Tor Vergata, hanno rivelato questa circostanza al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e al pm Giovanni Musanò. Nuovi dettagli dell’inchiesta bis sulla morte del giovane, che per la prima volta mette nel mirino i carabinieri, e non gli agenti di polizia penitenziaria. I due nuovi testimoni, indagato dall'avvocato Fabio Anselmo che assiste i Cucchi, sono militari, un uomo e una donna che erano di turno a Tor Vergata quando hanno visto arrivare Mandolini, ora indagato per falsa testimonianza. Secondo quanto riferito dal Tg1 ieri sera, la donna avrebbe detto ai pm: “Durante la mattinata è arrivato un collega, che non conoscevo. Il maresciallo Mandolini, si è presentato così. Era in uno stato agitato e disse, del fatto di Cucchi, che lo avevano massacrato di botte i carabinieri. (...) Disse che dei carabinieri, non facendo nomi, genericamente quelli che io penso abbiano operato l’arresto, non si erano regolati a livello fisico. E l’avevano massacrato e cercavano di scaricarlo”.
La dichiarazione di sei anni fa - Rivelazioni sulle quali la Procura sta lavorando: decine di interrogatori sono stati fatti nei mesi scorsi. Allo stesso modo verranno verificate le parole del collega di Tor Vergata. il militare secondo il Tg1 avrebbe detto ai pm: “Ricordo che arrivò lui con un passo veloce, con una faccia abbastanza tesa e preoccupata. Mi disse: ‘È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un ragazzo’”. Con Mandolini rischiano altri due carabinieri: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ai quali secondo quanto riportato dal Corriere della Sera potrebbe essere contestato il reato di lesioni colpose. I loro nomi erano già noti. Proprio Mandolini li indicò nel 2009, senza muovere accuse, ma dicendo che erano in “un’autovettura civile” che seguiva quella in servizio durante la perquisizione, con esito negativo, a casa della mamma di Cucchi. La deposizione è del 29 ottobre 2009, quando Mandolini viene sentito come persona informata sui fatti nel primo filone dell’inchiesta che si è concluso con l’assoluzione in appello di medici, infermieri e agenti penitenziari. Al pm Vincenzo Barba dice di essere in servizio alla stazione dei carabinieri Appia. E aggiunge: “Cucchi è stato portato dagli operanti Tedesco, Aristodemo e Bazzicalupo intorno a mezzanotte. Non ho ritenuto di provvedere al fotosegnalamento dell’arrestato in quanto si opponeva non risultando affatto collaborativo, ma soprattutto perché era in possesso di due documenti”. Sullo stato di salute del ragazzo dice: “Si presentava in normali condizioni per una persona dichiaratasi tossicodipendente e anoressica e con epilessia. Non presentava particolari segni di sofferenza se non le occhiaie ed un colore del viso olivastro, che collegai evidentemente alle patologie dallo stesso dichiarate”.
“Il cancello di casa forzato dopo la morte” - Poi i dettagli sulla perquisizione: “Cucchi (...) è stato portato a casa per la perquisizione con la nostra auto di servizio, a bordo della quale vi erano Speranza, Nicolardi, Aristodemo e Tedesco, tutti in divisa. La nostra auto era seguita da altra autovettura civile appartenente ad un militare, occupata da D’Alessandro e Di Bernardo, in abiti civili”. Questa novità suscita l’immediata reazione di Ilaria Cucchi: “L’allora ministro della Difesa La Russa disse che i carabinieri non c’entravano nulla. Non si sente in colpa?”. I pm stanno verificando altre circostanze. Come quella che qualcuno abbia forzato dopo la morte di Stefano e secondo quanto riportato da Ilaria Cucchi, il cancello della casa in cui il giovane viveva a Morena (Roma). Sulla morte di un ragazzo si comincia a fare luce solo sei anni dopo.

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