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martedì 8 settembre 2015

Pensioni, schiaffo a Poletti, salta l’uscita “anticipata”

Il provvedimento non è nella legge di Stabilità.
Il premier: “Se la faremo, sarà a costo zero” »


Nel dubbio, è Matteo Renzi a buttare la palla in tribuna: “La flessibilità in uscita? Si annuncia una cosa sulle pensioni quando si è sicuri. Spero di farlo nelle prossime settimane o nei prossimi mesi, ma a costo zero”, spiega il premier a Porta a Porta. L’uscita è anodina, e maschera un dietrofront che serve solo a tamponare le polemiche divampate dalla mattina, con i sindacati che attaccano il governo su quella che ormai sembra cosa certa: un ritocco alla legge Fornero non è all’ordine del giorno, non è cioè “ineludibile”, come l’aveva definito solo mercoledì il ministero del Lavoro Giuliano Poletti. “Quello a cui stiamo guardando - aveva ribadito prudente domenica a Cernobbio - è un’uscita anticipata che possa favorire nuova occupazione giovanile”.
“Al momento non ne stiamo discutendo, non fa parte del lavoro sulla legge di Stabilità”, conferma invece al Fatto il viceministro all’Economia Enrico Morando. Per una volta, insomma, il Tesoro sposa in pieno la linea di Palazzo Chigi: per lo Stato dev’essere a saldo zero. Una posizione che serve a far slittare il tutto. Flessibilità significa infatti permettere ai lavoratori di andare a riposo qualche anno prima rispetto agli attuali requisiti per la vecchiaia (66 anni e 3 mesi di età per gli uomini, 63 e 9 mesi per le donne del privato). Il tutto con delle penalizzazioni sugli assegni, che però producono risparmi per lo Stato solo nel medio-lungo periodo. Nell’immediato è un ammanco, qualsiasi strada si intraprenda. Che sia la proposta elaborata dall’ex ministro Cesare Damiano (Pd) insieme al sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta - uscita a partire da 62 anni e 35 di contributi con un taglio dell’assegno pari al 2% per ogni anno d’anticipo (fino a un massimo dell’8%) - o quella avanzata dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, che prevede il ricalcolo dell’intera pensione con il metodo contributivo (cioè sulla base dei contributi versati, più oneroso del retributivo). In questo caso, la penalizzazione è corposa: in media il taglio è del 20%, ma in molti casi arriverebbe fino al 30%. La proposta Damiano – ha stimato invece l’Inps –, costerebbe 8,5 miliardi (che salgono a 10,6 se per l’“opzione 100”, somma tra età e anni di contributi). “È un calcolo assolutamente infondato - spiega l’ex ministro - perché parte dal presupposto che andrebbero in pensione tutti e subito quelli che possono farlo. Non è così”. Un assegno più basso, e penalizzato dal taglio, poi, avrebbe l’effetto di abbassare il montante contributivo: “Di fatto, sul medio periodo sarebbe quasi a costo zero”. La differenza balla intorno ai due miliardi, ma sempre e solo sull’orizzonte lungo. I risparmi aumentano invece se si guarda all’ultima ipotesi ventilata: taglio del 2% il primo anno, per poi salire progressivamente (3% per il secondo, 5% per il terzo etc.). “Dire che la norma deve essere subito a costo zero è irrealistico. E se il governo decide di rinviare la misura sbaglia e smentisce quanto annunciato solo una settimana fa”, continua Damiano. “Se devo scegliere dove spostare risorse, preferisco farlo per ridurre la povertà assoluta”, spiega Morando. A conferma che inserire la norma in legge di Stabilità ha un costo immediato, riducibile all’osso solo con la proposta di Boeri, socialmente impercorribile per il governo. Ma toccare più a fondo la riforma Fornero non è un buon viatico per chiedere a Bruxelles più flessibilità sui conti pubblici (fuori dalle regole Ue). Flessibilità che per Matteo Renzi si otterrà ipotizzando un deficit 2016 “che non sia l’1,4% (in realtà è l’1,8%, ndr) che prevede il fiscal compact firmato dal governo itali ano ”. Qualcosa però andrà tolto. Non a caso, Morando ha abbassato l’asticella della manovra: “Al momento è di circa 25 miliardi”. Cioè i soldi necessari a disinnescare gli aumenti dell’Iva (16 miliardi) e a eliminare la Tasi (4,5 miliardi). A questi, si aggiungerebbero i 2 miliardi per il credito d’imposta alle imprese del Mezzogiorno, e poco meno per confermare –solo al Sud –gli sgravi contributivi. La stretta, invece, arriverebbe sul rinnovo degli stipendi della Pa imposto dalla Consulta: vale 1,6 miliardi, ma il governo vuole ridurli a uno.

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