L’accordo commerciale serve a cercare crescita,ma dalla Clinton a Trump c’è il riflessoisolazionista
Alcuni dei ministri
del
commercio degli 11 Paesi firmatari del Ttp |
Il Transpacific Trade Partnership, siglato il 5 ottobre, è
un’iniezione di adrenalina per il libero scambio come non se ne vedeva dalla
creazione del Wto. Lo hanno firmato 12 nazioni americane e asiatiche che
insieme valgono il 40% del commercio mondiale. Include colossi come Stati Uniti
e Giappone e piccoli emergenti come Vietnam e Perù. Impone l’abbattimento o
l’eliminazione dei dazi su circa 18.000 prodotti, anche in settori difesi da
lobby implacabili, tipo agricoltura e industria automobilistica. Inoltre
introduce standard comuni per politiche ambientali, protezione della proprietà
intellettuale e diritti dei lavoratori. I trattati regionali non sono lo
strumento ideale per promuovere il libero scambio a livello mondiale, perché
creano una pletora di regole, complicando la vita soprattutto delle imprese
minori. Tuttavia, appurata l’ormai cronica inconcludenza del Wto, le grandi
aree economiche hanno imboccato la via meno ambiziosa degli accordi parziali.
Il Ttp è il più vasto finora, in attesa del Transatlantic Trade and Investment
Partnership (Ttip) tra Nord America e Ue. La liberalizzazione del commercio internazionale
costituisce la spinta propulsiva della crescita economica: abbatte inefficienze
e soffoca privilegi. Appunto per questo è la bestia nera di chi accumula
profitti attraverso cartelli e collusioni politiche. Per mettere la firma sotto
il Ttp il presidente Usa Barack Obama si è appoggiato ai Repubblicani contro il
suo Partito democratico dove prevale il riflesso condizionato del protezionismo
isolazionista. Riflesso cavalcato all’istante dalla candidata democratica
Hillary Clinton per sottrarre una manciata di voti al rivale “socialista”
Bernie Sanders. L’arruolamento del repubblicano Donald Trump nelle truppe
anti-Ttp conferma che persino in America l’avversione alla libertà economica
costituisce il collante degli opposti estremismi. Dal punto di vista
macroeconomico il Ttp è il primo vero tentativo di una cura multilaterale
contro il rachitismo che ha colpito l’economia mondiale. A otto anni dalla
crisi dei mutui subprime, nonostante tre massicce operazioni di quantitative
easing negli Usa, due in Europa la Abenomics in Giappone, quest’anno il Pil
mondiale calcolato in dollari nominali si ridurrà di 2.700 miliardi di dollari
secondo le ultime previsioni del Fmi. Una caduta di simili proporzioni, 3.330
miliardi, era avvenuta solo nel 2009, al culmine della recessione. Per questo
il Ttp è cruciale: oltre al commercio di derrate agricole e manufatti,
liberalizza i servizi (obiettivo su cui il WTO ha finora fallito), fissando
parametri fortemente innovativi da cui non potranno prescindere i futuri trattati.
Dal momento che i servizi nelle economie avanzate rappresentano fino all’85%
del Pil, il pervicace protezionismo perpetrato in questo ambito ha finora
compresso la quota dei servizi nel commercio mondiale ad un mero 20% e
prosciugato la crescita del commercio mondiale, precipitata al 3% annuo contro
il 7% che era la norma nel decennio scorso. Considerando che manufatti e
materie prime contribuiscono all’80% del commercio mondiale pur generando solo
il 16% del Pil mondiale, il Ttp spalanca praterie di opportunità nello sviluppo
internazionale di telecomunicazioni, finanza, assicurazioni, commercio on line,
software, trasporti, sanità, servizi legali eccetera che costituiscono i
pilastri dell’economia moderna. Quando il vento della liberalizzazione soffierà
anche sui grandi paesi asiatici finora esclusi dal Ttp, come Cina, Corea e
India, o sul vecchio continente con il Ttip la linfa della crescita ricomincerà
a fluire.
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