Il Senato ha fretta di sbloccare i fondi pubblici, i diritti dei gay rinviati ancora
Prima i soldi e poi i diritti. È una sintesi un po’ brutale,
ma il prossimo calendario del Senato dovrebbe seguire questo schema. Le unioni
civili aspetteranno ancora, perché l’equilibrio della maggioranza è fragile e
le priorità dei partiti sono altre: la legge attesa dalle coppie omosessuali è
meno urgente di quella chiesta dai tesorieri.
Parliamo del ddl Boccadutri, la norma firmata dal deputato
ex Sel ora al Pd, che mette in salvo le ultime briciole del finanziamento
pubblico ai partiti. Approvata in tempi molto rapidi alla Camera, ora sta
bruciando le tappe in commissione al Senato e sarà portata a casa entro la fine
dell’anno. La legge, di fatto, è una sanatoria: il finanziamento pubblico è
stato abolito da Letta, ma gli ultimi fondi saranno distribuiti fino al 2017.
Per accedere al denaro, però, il bilancio di ogni partito deve essere
certificato da un’apposita commissione di garanzia. Quest’anno il timbro non è
arrivato, perché la stessa commissione non ha abbastanza personale per portare
a termine il lavoro in tempo. La situazione è stata risolta dal disegno di
legge dell’ex tesoriere vendoliano, che stabilisce una deroga per l’anno in
corso: i partiti incasseranno la propria parte (una ventina di milioni di euro
sui 45,5 previsti dalla legge Letta) anche senza un bilancio certificato.
Prima, però, serve il passaggio al Senato, dopo quello rapido e indolore alla
Camera. Il ddl potrebbe essere incardinato già mercoledì 15 ottobre, ma anche
se l’approdo in aula dovesse slittare, arriverà a Palazzo Madama non oltre
novembre.
E le unioni civili? Il lungo elenco dei rinvii di governo è
destinato a crescere ancora. Si era partiti con la promessa di un’approvazione
entro la scorsa primavera, poi l’estate, poi l’autunno; l’ultima
dichiarazione del governo (ministro Boschi) aveva stabilito il limite del 15
ottobre per portare il testo della legge in aula. Sarà molto difficile: il
calendario è serrato e la volontà del Pd, a conti fatti, debole. Martedì 13 va
in scena l’ultimo atto della riforma costituzionale, col voto finale al Senato.
Lo stesso giorno, in teoria, la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama
potrebbe incardinare il testo sulle unioni civili in aula già il giorno successivo.
Sarebbe un gesto simbolico (visto che il 15 ottobre in Senato iniziano i lavori
sulla legge di stabilità), utile soprattutto per tenere fede alle parole di
Boschi. Ma anche se si tratta di una bandierina, i partner di maggioranza di
Ncd-Ap sono pronti a combattere purché non venga piantata. Lunedì mattina
Alfano incontra Renzi, insieme ai rispettivi capigruppo, per fissare dei
paletti: il premier non può pretendere dagli alleati fedeltà assoluta sulle
riforme e poi forzare la mano su una legge sgradita.
Il Pd ha due possibilità: ignorare le pressioni e
incardinare lo stesso il nuovo testo della legge Cirinnà in Senato, facendo
infuriare i centristi, oppure continuare la mediazione – che procede al rilento
– in commissione Giustizia (facendo evaporare l’ultima promessa di Boschi). In
ogni caso, qualcuno presenterà il conto. L’ultrà cattolico Carlo Giovanardi
(Ncd) non lo nasconde: “Se il giorno prima si prendono la nostra fiducia sulla
riforma del Senato e poi se ne approfittano, facendo passare rivoluzioni
antropologiche totalmente contrarie alla nostra impostazione, è evidente che un
secondo dopo gli votiamo la sfiducia e passiamo all'opposizione”. Approvare le
unioni civili con chi le considera una “rivoluzione antropologica” – va da sé –
non può essere un pranzo di gala, ma questi sono gli alleati che il Partito
democratico si è scelto sin dall'inizio della legislatura. Ieri sulle unioni
civili si è arreso anche il capogruppo del Pd, Ettore Rosato: “È un dato di
fatto – ha detto all’Avvenire – che non ce la faremo per la fine dell’anno”. Si
attende con ansia l’annuncio della prossima data, e del prossimo rinvio.
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