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martedì 22 settembre 2015

Afghanistan, soldati Usa costretti al silenzio per abusi su minori. Gli ordini: "È la loro cultura"

Inchiesta del New York Times. Marines americani hanno l'ordine di ignorare le violenze sessuali che vengono compiute regolarmente dagli alti ufficiali della polizia del Paese, in alcuni casi anche quando avvengono nelle stesse basi militari


Soldato USA di vedetta in Afghanistan
KABUL - Sono orrori di guerra, e a rivelarne una parte oggi è il New York Times. L'Inchiesta parte dal racconto di un padre che ha perso il figlio, soldato americano in Afghanistan. Nella sua ultima telefonata a casa, Gregory Buckley Jr., gli aveva detto che alti ufficiali afgani abusavano sessualmente di ragazzi che, spesso, si portavano alla base. Aveva raccontato di sentire le urla dalla sua postazione. Era turbato, ma non poteva intervenire. Gli ordini erano quelli di voltare il viso dall'altra parte.
"Di notte siamo in grado di sentirli urlare, ma non siamo autorizzati a fare nulla", queste le parole che ricorda il padre, Gregory Buck Sr., del soldato colpito a morte nel 2012. Ucciso proprio da uno dei ragazzi che vivono alla base con un comandante di polizia afgana, Sarwar Jan. Il padre l'aveva esortato a dirlo ai suoi superiori. "Ma ha risposto che i suoi ufficiali gli avrebbero detto di voltarsi dall'altra parte, perché è la loro cultura".
L'abuso sessuale dei bambini e adolescenti è un problema in Afghanistan, in particolare tra i comandanti che controllano gran parte dei territori e spesso della popolazione. Per gli uomini potenti essere circondati da giovani può essere un segno di status sociale. La pratica si chiama Bazi Bacha, letteralmente "play boy", e soldati e marines americani sono stati incaricati di non intervenire, in alcuni casi neanche quando gli alleati afgani abusano dei ragazzi nelle stesse basi militari.
Dan Quinn, ex Comandante delle Special Forces USA
Le forze americane hanno reclutato e riorganizzato le milizie afgane per tenere sotto controllo il territorio e fronteggiare i talebani. Ma la denuncia dell'ex comandante delle forze speciali Dan Quinn è aspra: "La ragione per cui siamo qui è per contrastare i talebani", ha dichiarato "ma poi mettiamo al potere persone che sono anche peggio". Quinn ha disobbedito agli ordini, ha picchiato un comandante afgano che aveva incatenato un ragazzo al suo letto per usarlo "come schiavo del sesso". Ora non ha più una carriera militare, le misure disciplinari prese dall'esercito hanno comportato la perdita di grado e il ritiro dall'Afghanistan. Quinn ha lasciato l'esercito ormai quattro anni fa. L'esercito adesso sta cercando di forzare alla pensione il sergente Charles Martland, un membro delle forze speciali che si era unito al capitano Quinn nel pestaggio del comandante afgano. Il portavoce del comando Usa in Afghanistan, colonnello Brian Tribus, spiega che "le accuse di abusi sessuali su minori da parte di personale militare o di polizia afgana sono una questione di diritto penale nazionale. I soldati americani non sono obbligati a segnalare casi del genere, l'unica eccezione è se lo stupro viene utilizzato come arma di guerra".

Ma le testimonianze sono tante. Una volta lasciato l'esercito Quinn ha denunciato i comportamenti delle milizie afgane alle quali veniva affidato il controllo dei villaggi liberati dai talebani. Stupri, violenze, prevaricazioni. Ma non dai talebani, dai loro alleati. E le mani restavano legate, le teste girate dall'altra parte, i comportamenti impuniti.
Nel settembre 2011, una donna afgana, con segni chiari di percosse, si era presentata alla sua base con il figlio, zoppicava. Aveva chiesto aiuto raccontando che uno dei comandanti di polizia della zona, Abdul Rahman, aveva preso il ragazzo e lo aveva incatenato al suo letto. Quando era andata a cercarlo, anche lei era stata picchiata. Suo figlio poi era stato rilasciato, ma lei aveva paura che potesse accadere di nuovo. Quinn aveva convocato Rahman che aveva ammesso il fatto. Sprezzante, sorridendo. "L'ho preso e buttato a terra", racconta Quinn. Poi era entrato il sergente Martland e insieme l'avevano picchiato. Infine erano stati denunciati.
Abdul Rahman è stato ucciso due anni fa in un agguato dei talebani. Suo fratello ha detto in un'intervista che non aveva mai violentato il ragazzo, ma che era stato vittima di una falsa accusa. Un capro espiatorio. L'esercito, conclude il NYT, continua a non commentare le accuse.

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